23 Maggio 2023

«L'era post-Guerra Fredda è definitivamente finita» e «La CINA è la sfida geopolitica più importante» queste due affermazioni sono contenute nel NATIONAL SECURITY STRATEGY che il Presidente USA Joe Biden ha sottoscritto a ottobre 2022. Esse sono la riprova della Geopolitica che cambia, investendo processi che pensavamo consolidati e prima di tutto la Globalizzazione.
Sul nuovo confronto USA-Cina si è articolata la relazione, ricca di dati statistici e schemi esplicativi, di Enrico Mantellassi al Rotary Cantù il 23 maggio, che si è conclusa con un’ampia discussione a testimonianza del profondo interesse che l’argomento riscontra tra i Soci.

La sorpresa cinese
La relazione si è sviluppata a partire dalla costatazione che la Cina è stata la maggiore beneficiaria del processo di Globalizzazione che ha interessato il mondo intero, avendo realizzato in 30 anni uno sviluppo economico incredibile, che la vede oggi di gran lunga la seconda potenza economica del pianeta, con un PIL a 19.900 miliardi contro i 25.300 degli USA mentre, terzo ben distaccato, appare il Giappone a 4.900 nel 2022.
Questa fantastica crescita le ha consentito grandi progressi sociali, come la formazione di una consistente borghesia nelle maggiori regioni industriali, con quel che comporta in termini di maggiori consumi e diffusione di una migliore qualità della vita, la sconfitta dell’analfabetismo e in buona misura della povertà. Il processo di rapidissima industrializzazione, reso possibile dall’apertura agli investimenti occidentali e soprattutto americani, si è accompagnato all’acquisizione di conoscenze tecnologiche da parte delle maestranze cinesi, grazie alla compartecipazione alla gestione delle imprese, che il governo cinese ha sempre imposto agli investitori.
Così con le riforme varate da Deng Xiaoping, dopo le controverse esperienze del “Balzo in avanti” e della “Rivoluzione culturale” maoista, la Cina ha potuto decollare e divenire la “fabbrica del mondo” grazie anche al ferreo controllo sociale, ai bassi costi della mano d’opera e all’assenza di norme anti inquinamento, che ha offerto agli investitori.

I risvolti negativi dello sviluppo
Naturalmente questo sviluppo ha avuto anche risvolti negativi, come una corruzione non si sa quanto diffusa tra i quadri del partito, una bolla immobiliare che ha creato un debito assai grave, mentre i prezzi delle abitazioni sono divenuti insostenibili, o la politica del “figlio unico”, da qualche anno non più in vigore, che ha causato una forte diminuzione delle nascite e nel contempo un processo di invecchiamento della popolazione, che in prospettiva renderebbe problematico il rapporto tra giovani e anziani.
Il forte miglioramento dell’istruzione ha fatto sì che la Cina sforni circa 8 milioni di laureati l’anno, che tuttavia non trovano sempre adeguata collocazione nel panorama delle imprese. Così la disoccupazione giovanile è ormai al 20% e il Premier cinese invita i giovani laureati ad accontentarsi dei lavori più umili.
Ad impressionare è anche il SISTEMA di CONTROLLO SOCIALE, un monitoraggio continuo del cittadino cinese, che dà luogo a premi e punizioni a seconda del grado di conformità comportamentale alle direttive dello stato. D’altra parte si dice che la Cina disponga oggi del più diffuso sistema di telecamere sul territorio, per il riconoscimento facciale. A testimonianza anche di una dimensione tecnologica e industriale che non è seconda a nessuno, in buona misura privatizzata e che in parte prescinde da nuovi investimenti dall’estero.

I vantaggi per gli USA negli ultimi 30 anni
Gli Stati Uniti, dal canto loro, fin dagli anni ’90, hanno potuto importare dalla Cina prodotti di costo ridotto che hanno accresciuto il potere d’acquisto dei salari americani, colpiti da un altalenante tasso di inflazione, superiore al 10% agli inizi degli anni ’80 e rientrato con le politiche espansive di Reagan.
Inoltre, hanno pagato le importazioni in dollari, convertiti dallo stato cinese in titoli di stato americani, a basso tasso di interesse, col risultato di veder aumentare progressivamente il debito statale, senza tuttavia dover alzare troppo il tasso di sconto della FED. Hanno finanziato così a basso costo le politiche di spesa espansionistiche di questi anni ma con un debito statale che ormai supera i 30 mila miliardi di dollari.

I guai degli Stati Uniti
La crescita del debito, a lungo andare, è divenuta talmente insostenibile da paralizzare l’autonomia della presidenza americana e così il Presidente Biden, per le sue politiche di spesa pubblica, è ingabbiato in un tetto del debito, a rischio di default, che non può superare, se non accettando pesanti limitazioni dal Senato americano.
A fare le spese di queste restrizioni è stato in questi anni soprattutto il finanziamento statale del welfare e in particolare della ricerca, sceso dal 1,9% del 1964 allo 0,65% attuale. Tutto ciò mentre in Cina accadeva il contrario, col risultato che, al momento, quest’ultima risulta essere la prima potenza per numero di brevetti attivi (nel 2021 erano ben 3,6 milioni, contro i 3,3 milioni degli Stati Uniti e i 2 del Giappone).
Molti altri sono i problemi che il sistema americano sta incontrando, a partire da una disgregazione politica che sta avvelenando il corpo sociale ed è sfociata nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2001. Né si può tacere delle discriminazioni razziali che combinate con il comportamento violento della polizia e col dissennato uso privato delle armi, creano un clima di forte disagio sociale, o ancora delle difficoltà legate ad un costosissimo e inefficiente sistema sanitario.
Infine vogliamo accennare alle distorsioni del sistema universitario, sempre più elitario e costoso, il cui accesso è in pratica precluso alle classi meno abbienti. È pur vero che gli Stati Uniti ospitano otto delle migliori università del mondo, in cui opera una docenza che negli ultimi anni ha fatto incetta di Nobel, ma bisogna riflettere sul particolare che il tasso di superamento degli esami di ammissione ad Harvard non supera il 4% ed è bassissimo anche per le altre otto prestigiose università private degli Stati Uniti della Ivy League.
Tutto lecito anche se iniquo, se non fosse che sistemi truffaldini per aggirare l’ostacolo da parte dei ceti più facoltosi, per favorire i propri rampolli, sono ampiamente accertati, e questo compromette il processo di reclutamento dei migliori talenti destinati ai vertici dello stato e del sistema economico, regola d’oro del sogno americano, terra promessa della meritocrazia.

La reazione USA alla concorrenza cinese
In più ora è guerra aperta alla Cina, come si evince dalla National Security Strategy, a cui si cerca di precludere il Know How relativo alla produzione dei semiconduttori e Chip più avanzati, divenuti il componente strategico, non solo nell’automotive ma anche per il settore degli armamenti e dell’elettronica più sofisticata.
Vedi il CHIPS and Science Act, un provvedimento federale degli Stati Uniti, emanato dal Congresso e confermato in legge dal presidente Biden il 9 agosto 2022. L'atto stanzia circa 280 miliardi di dollari in nuovi finanziamenti per promuovere la ricerca nazionale e la produzione di semiconduttori esclusivamente negli Stati Uniti. Superfluo precisare che la quasi totalità dei maggiori produttori mondiali di microprocessori stanno approfittando dell’offerta.
Contemporaneamente gli USA cercano di riportare in America i posti di lavoro perduti con la globalizzazione (almeno 800.000 ripresi negli ultimi due anni) e di proteggere sia l’apparato produttivo nell’automotive a trazione elettrica, che più in generale nella produzione di dispositivi come i pannelli solari per l’energia rinnovabile, nonché il proprio commercio delle terre rare – altro componente strategico – ai danni sempre della Cina, che in questi settori ha una posizione dominante nel mercato mondiale.
Il Presidente Biden ha mantenuto la politica dei dazi verso i prodotti cinesi, varata dal Presidente Trump ed oscilla tra il perseguire una politica di completo distacco dalle produzioni cinesi (DE-COUPLING) e il limitare l’azione di contrasto ai soli prodotti strategici dei quali interrompere le forniture alla Cina (DE-RISKING).
A questo scopo il Presidente Biden ha varato in agosto 2022 anche l’Inflation Reduction Act (IRA), un grande piano di riforme, la cui componente principale riguarda il clima. Nell’ambito del finanziamento, quasi 370 miliardi di dollari sono destinati ad incentivare la crescita di un nuovo ecosistema industriale, in settori strategici dell'energia pulita, per consentire agli Stati Uniti di raggiungere l’obiettivo di ridurre del 50% le emissioni di gas serra entro il 2030, rispetto al valore del 2005.
Ma gli incentivi saranno riservati a chi compra prodotti per la realizzazione di energie rinnovabili, realizzati negli Stati Uniti e questo scontenta anche gli alleati europei, oltre alla Cina. Una seconda componente, più modesta, comprende misure di riduzione del costo dell'assistenza sanitaria, in particolare per gli anziani.

La Cina reagisce al tentativo di isolamento
La Cina sta reagendo con un forte investimento nelle nuove tecnologie e con una vigorosa politica di infiltrazione tra i paesi del terzo mondo, ai quali offre finanziamenti per infrastrutture strategiche – strade, ferrovie, porti e reti di telecomunicazioni, grazie ad un’iniziativa - BRI (Belt and Road Initiative) - che richiama alla memoria la favolosa “via della seta” e a cui aderiscono oltre140 paesi.
Sta inoltre cercando di potenziare i consumi interni, in vista di una riduzione delle esportazioni, in particolare verso gli Stati Uniti. Tuttavia con la BRI sta accumulando un credito verso il terzo mondo che è superiore alla somma del credito detenuto allo stesso titolo, verso gli stessi paesi, da tutto l’Occidente creditore, riunito nel Club di Parigi. La Cina sta quindi sta rischiando una forte impopolarità, proprio presso quei paesi di cui vorrebbe farsi paladina e, per quanto riguarda i consumi interni, non può incrementarli senza alzare i salari ma questo comporterebbe un aumento dei costi dei prodotti, a danno delle esportazioni.
In ogni caso la de-globalizzazione intesa come il rientro degli insediamenti industriali verso gli USA è un processo complesso e costoso perché non è facile “smontare e riallocare” le catene multinazionali del valore che si sono create in questi anni, privilegiando in buona misura la Cina, per gli insediamenti produttivi e per le strutture logistiche di approvvigionamento.
È difficile stabilire oggi quante siano le imprese in Cina, e tuttavia si stima che siano forse una decina di volte quelle degli Stati Uniti. Si comprende quindi quale sia la mole del complesso industriale cinese che l’Occidente e in particolare gli USA stanno fronteggiando, ma appare avviata la tendenza ad una nuova forma aggressiva di protezionismo americano e a una globalizzazione da reindirizzare verso i paesi amici.

Conclusioni
Questi processi combinati anche con altri, che non abbiamo potuto citare per brevità, produrranno risultati che è difficile prevedere e comunque richiedono tempi medio-lunghi. Quindi non vedremo tanto presto l’esito del braccio di ferro in atto e, tenendo presente che gli effetti si riverbereranno anche sull’Europa, prendiamo buona nota che non possiamo considerarci semplici spettatori.

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